Hanno scritto...
Rossella Pesce, G.M. Olivieri, Maria Grazia Torri, Giancarlo Papi, Riccardo Gresta, Francesca Michelotti, Antonella Micaletti, Gianni Gori, Romina Grossi, Silvia Pacassoni, Edoardo Di Mauro, Alberto Boatto, Marisa Zattini, Angelo Sblendore, Viola Lilith Russi, Ivo Gigli, Annamaria Bernucci, Gabriele Tinti, Armando Ginesi, Carlo Marcello Conti, Vincenzo Scardigno, Grazia Chiesa, Monica Farneti, Claudio Cerritelli, Lucia Rughi, Giovanni Rimondini, Bruno Bandini, Sabina Ghinnassi. “Come numerosi artisti della sua generazione, l'interesse di Maria Pia Campagna è rivolto alla figura, una figura primaria, essenziale, compendiaria. L'itinerario che traccia delinea una specie di quest, al termine del quale sembra d'intravedere la ricerca di un icona. Dando ad alcune opere il titolo di "Es", essa rivela in maniera scoperta come l'obiettivo della sua inchiesta sia l'universo impulsivo e sprofondante dell'inconscio, che la pittura si impegna di farlo affiorare alla luce, di chiuderlo in un'immagine. Un segno nero, largo, continuo e abbracciante, privo di rotture e di riprese interne, è incaricato di configurare simile immagine. La stesura di un unico colore forte, giallo, blu, rosso, al limite di una risonante timbricità e solo scialbato con leggerezza, fa risuonare l'assolutezza del grosso tratto nero-inchiostro. Le "porte" e le "finestre" sono aperture, non verso la realtà esterna ma verso una mondo ulteriore, soglie di una introversione non di una extroversione. Come lo è il cuneo rovesciato della "gola" rosso incendio. Al di là della soglia, si affacciano profili di braccia e di mani che sembrano voler afferrare qualcosache sta appena condensandosi in fondo alla composizione. Oppure si sporgono una serie di personaggi senza peso, aerei, fluttuanti che si curvano in avanti. Nella serie, "Isotta", rappresentata con le braccia alzate e le gambe divaricate, è una figura dell'invocazione, dell'attesa e del dono di sé. Colpisce la concordanza fra essenzialità delle figure e la semplificazione del linguaggio impiegato, nelle linee come nei colori. La Campagna ci rivela con discrezione e sicurezza uno spezzone di quell'universo femminile nel quale si sono inoltrate, da non molto tempo, un manipolo di donne "possedute" dalla seduzione dei colori e dalla forza penetrante dei segni” Alberto Boatto IL TERZO UNIVERSO ESTETICO DI MARIA PIA CAMPAGNA Capitano delle coincidenze, si vivono momenti esistenziali in cui ci si confronta tra amici con esperienze passate simili; si ricordano drammi che hanno prodotto comprensione e/o produzione di oggetti estetici. Frammenti di vita passata sfioranti la tragedia impregnati di immaginale. Noi che viviamo protetti dalla linea dello Stivale – per usare uno stilema minimale, un contorno, tipico di Maria Pia – protetti dal mare che ci circonda, dalla furia fredda e smisurata delle onde, ignari dallo stratificarsi di esperienze tragiche che non ci piace sentirci raccontare, che segneranno però i secoli prossimi della nostra storia e i destini delle generazioni che verranno. Capita che un facente funzione di critico e una pittrice di molta esperienza si trovino, seduti al Bar Commercio, nella memoria, raccontandosi il passato, una stessa esperienza drammatica che subito si presenta come una sorta di ponte con quelle immani, tragiche esperienze di morte del popolo universale dei migranti che continuano a prodursi senza tregua. Un piccolo ponte che permette un qualche avvicinamento, per sentire un'eco, tenue forse, di queste tragedie infinite, per stabilire un minimo punto di contatto e anche, insieme, per consumare un tradimento, e da ultimo cristallizzare una difesa. Certamente il grave tema umano e politico dei migranti è troppo grande per essere affrontato con un qualche senso dai due che stanno scambiandosi dei piccoli pareri sulla pittura. Subito il discorso vira sul personale, sull'estetico. La pittrice da bambina sta annegando, ricorda; dopo il parossismo del soffocamento, arriva una calma serena e vede la luce in fondo al tunnel – proprio come nel dipinto di Bosch esposto nel palazzo Ducale di Venezia -. Ma lei non si lascia andare, da sola, reagisce quasi senza rendersene conto, si strappa dalle tenebre affascinanti e si getta di nuovo nel nostro mondo di acqua, di terra e di cielo. Il sedicente critico all'età di dieci anni, coi compagni di collegio, cammina, racconta, nell'acqua bassa di un bacino che raccoglie le acque di un grande lago artificiale sbarrato da una diga. Finisce in una buca profonda e annega. Si lascia andare a un dolce sopore, dopo avere sofferto le pene del soffocamento, e visto delle immagini. Mentre il dolore virava in una sensazione di serena tranquillità, la mente era occupata da un'immagine come di strati di vetro grigio, opaco, crepati e rotti, in movimento... La stessa immagine di vetri grigi, opachi e rotti a sei anni, il bambino aveva visto, ed insieme provato una simile esperienza di soffocamento, al momento in cui era stato addormentato con gocce di cloroformio su un tampone premuto sul naso, per subire un'operazione di appendicite. Poi nulla, nessuna sensazione. Si era risvegliato su un prato. Intorno i suoi compagni e uno dei ragazzi più grandi che gli aveva salvato la vita. Riflettono, la pittrice e il critico di campagna, sull'esperienza di morire annegati: la sofferenza del soffocamento, la calma e quasi piacevole sensazione di abbandono che annuncia la fine, e sopratutto sulla forma e sulla natura delle immagini che si sono presentate. Le immagini, è risaputo, si presentano nella psiche in questi momenti di angoscia e di serenità quando vi è una minaccia all'esistenza della persona. Le immagini trasmettono la gioia della libido – nel mito dei nostri tempi freudiano e lacaniano, come nella riflessione del grande Aristotele trasmettevano piacere -; hanno un valore terapeutico, lo sappiamo, e nascono anche e forse soprattutto in momenti di profonda angoscia. Maria Pia lavora su piccole superfici di metallo della misura di miniature, o su grandi teli innalzati su alte pareti o stesi su spaziosi pavimenti. Le sue figure gigantesche e di segno minimale svettano nello scuro di luoghi chiusi o nella luce dei cieli, come sculture. Mi mostra una lastra di alluminio – cm 15 x 10,5 – intitolata “Il Mare 2015” - Con un colore grigio, quasi argenteo, denso, che riceve le impronte violente delle dita. Una sbavatura di rosso. Si prova l'impressione mimetica della superficie del mare in tempesta. Qualcosa che sposa la mimesi drammatica e il simbolismo minimale. Figure minime immaginali e di senso. Maria Pia accenna, tocca un punto, un colore, una linea essenziale su cui si possa ricostruire una narrazione pittorica, ma anche un racconto che la spieghi. Un procedimento che ha qualcosa della metonimia: la parte per il tutto e anche del vivere della classica figura retorica nell'ambito della realtà. Da tempo mi ero accorto di una stratificazione simbolica delle opere di Maria Pia. Le avevo lette con un metodo junghiano, o per essere più precisi con metodo tratto dalle analisi di James Hillman. Mi aveva colpito certamente quello che si potrebbe definire il minimalismo metonimico – ossia l'individuare l'essenziale con un tratto minimo ma reale significativo – ma il mio interesse si era concentrato sull'aura mitica, sulla presenza ripetuta di archetipi femminili come quello della Grande Madre e sui relativi riscontri immaginali con le opere di grandi culture matriarcali arcaiche di tutto l'universo immaginale umano. Riguardando le immagini delle opere di Maria Pia, mi verrebbe da selezionare una terza appartenenza o un terzo carattere fondamentale delle immagini dell'artista, un'attenzione metonimica al corpo sia maschile che femminile. Maria Pia ha rappresentato parti esterne del corpo come braccia, mani, teste e parti interne o che evocano, nell'immaginario di chi guarda, l'interno del corpo. L'archetipo del corpo non è lontano da quello della Madre, ma ha anche elementi di realtà, di fisicità relativi all'oggetto su cui si struttura l'immagine. Si tratta di una verità universale della pittura e del significato dei suoi supporti materiali: tavole, tele, fogli di carta o di pergamena. Lacan, in un suo seminario – dove si trovano digressioni che precisano la sua concezione dell'essenza della pittura – afferma che nemmeno un quadro astratto può essere esposto capovolto. Anche il quadro astratto ha un alto, un basso, due lati, e cioè un capo, dei piedi, una destra e una sinistra; ha una struttura antropomorfa. Anche un piccolo rettangolo d'acqua marina ripete lo schema antropomorfo, inquadra nella struttura di un corpo il tragico destino di un corpo. Giovanni Rimondini, 2016 Il “luogo” del Minotauro, il labirinto, è una costruzione – o forse un percorso – che conta almeno su due caratteristiche essenziali e complementari: la complessità della sua pianta e la difficoltà a percorrerla. Come dire: non è difficile o improbabile entrare in un labirinto. Più complicato è uscirne. A meno che noi non si sia quel soggetto che, per necessità o per sorte, è destinato a viverlo. Il labirinto è altresì un artefatto che custodisce quel segreto terribile che è frutto dell’incontro appassionato di umanità e di natura, di regola e di furore, di misura e di dismisura. Insomma, un campo di tensione dove si esercita – come nell’arte – lo scontro tra Apollo e Dioniso. Gli artefatti e le loro misure – pressoché umane, pressoché personali – che Maria Pia Campagna viene definendo si presentano come segno oggettuale, si presentano come “cose”, che assumono una singolare ed ambigua caratteristica: possono continuare a persistere, ad interrogare ed a stimolare, così come possono invece smettere di “essere” pur continuando ad esistere. Cose che sono e cose che esistono. La differenza – come spesso accade – si consuma nel ventaglio che dispone tra verità ed apparenza. Eppure i nostri occhi hanno bisogno di oggetti: le cose sono la nostra affezione nei confronti del mondo, ma desideriamo che esse ci rassicurino. Dubitiamo o rifuggiamo dalle cose che inquietano, che si presentano come dissonanza, come radicale alterità, come nuovo, insistito invito a “mettere al mondo il mondo”. Oggetti che sono interrogazioni e che danno corpo a collezioni, a serie, che creano un campo di tensione dove l’illusione del “velo della bellezza”, della compostezza e della compiutezza delle forme, si confronta con il volto tragico della vita. Campagna genera visioni in cui peso e leggerezza non sono da intendere come concetti letterari o genericamente fenomenici, non come condizioni che precedono l’opera, presupposti sui quali costruirne l’identità, ma piuttosto come conatus, come intenzionalità, come aspirazione che tenacemente sottopone a verifica i desideri spaziali dell’autore. Si tratta di valori compresenti, che non indicano due versanti esclusivi attraverso i quali dividere in modo manicheo la riflessione e la direzione della ricerca. Suggeriscono una sorta di complicità che alberga nell’opera, come se la leggerezza fosse un senso di liberazione dal peso e di trasfigurazione del peso, come estensione immaginativa della forma tale da conferirle un “peso” visivo non più misurabile. Condizioni di coinvolgimento dello sguardo, peso e leggerezza sono condizioni che investono una gamma ampia di sensazioni visive e tattili, che portano “colui che osserva” a confrontarsi con l’organicità delle forme, con originali valori dinamici del colore, con la ricerca di un valore in cui masse e volumi, linee e cromie si definiscono in immagine plastica. Insomma, suppongo che la ricerca di Campagna sia anche rivolta alla certificazione della caduta di un’illusione. Quella di un modo di immaginare la ricerca artistica come processo che riesce a circoscrivere la complessità di un luogo elaborandone un “modello”, un “tipo”, al fine di rendere quel luogo in qualche misura controllabile. Forse un tempo la realtà, per quanto “difficile”, ci appariva comunque intelligibile, perché al suo interno eravamo certi di individuare un disegno, un telos. Oggi, al contrario, noi stessi costruiamo labirinti, la nostra residenza, il nostro vissuto. Oggi non siamo più parenti di Teseo e di Arianna, ma del Minotauro. Bruno Bandini — MARIA PIA CAMPAGNA E I SEGNI DELL'ORIGINE Le opere di Maria Pia Campagna allestite in stretta analogia con gli oggetti del Museo degli Sguardi di Rimini hanno messo in luce congiunzioni sorprendenti tra l’arte contemporanea e l’arte etnica, quasi annullando la distanza del tempo che li separa. Attraverso la lettura delle immagini e delle loro diverse componenti stilistiche la mostra ha suggerito un percorso di riflessioni intorno alle risonanze interiori della forma e del colore come strumenti primari per immaginare i segni dell’origine. Il lavoro di M.P.C. si muove all’interno di una avventura delle forme che trae origine dagli spazi remoti della memoria, per svilupparsi attraverso continue mutazioni di senso, dal passato al presente, sia attraverso lo spazio stratificato della storia sia per il tramite del presente in atto. Un primo aspetto da considerare è l’ambivalenza linguistica che caratterizza la ricerca dell’artista dai primi anni Settanta ad oggi, affrontando in ogni decennio la compresenza di elementi figurali e di tensioni astratte. La dialettica costante tra queste due componenti coinvolge senza gerarchie il piano delle pulsioni espressive, sovrapponendo le tracce del reale ai segni dell’invisibile, entrambi liberi di fluttuare nelle zone indeterminate della visione. Dalle istallazioni scultoree e dagli oggetti reinventati durante gli anni Settanta M.P.C. esplora la dimensione del colore svelando le vie segrete che portano alle diverse contaminazioni della pittura. Polveri su carta, pigmenti su tela e varie mescolanze di materiali suggeriscono sconfinamenti dai limiti del supporto, agiscono in campo aperto proiettando lo sguardo oltre la definizione di strutture spaziali basate sul valore della sintesi, sulla necessità di astrarsi dalle convenzioni fenomeniche del mondo eliminando ogni dovere rappresentativo. Attraverso un processo di lettura concettuale della realtà, l’artista definisce la forma attraverso i ritmi interni del suo continuo apparire, di conseguenza ascolta l’origine delle immagini con l’occhio della mente che riflette sulla sospensione dello spazio, dimora poetica di infinite possibilità espressive. Le “porte” e le “finestre”(2000-2001) sono luoghi di attesa, soglie interiori, schermi di solitudine, luoghi di meditazione che collegano sparsi dettagli di realtà alla dimensione interiore dell’inquietudine, a quelle zone nascoste e indecifrabili in cui la razionalità non ha alcuna possibilità di accesso. Anche quando si fa essenziale e primaria, la costruzione astratta di segni e colori ha sempre un rapporto con la realtà, allude ai sensi della vita e ai suoi conflitti inevitabili, è un’azione che attraversa le ombre del vissuto captando le misteriose apparizioni dell’inconscio. D’altro lato, il senso della figuralità è affidato alla presenza simbolica del corpo (Lame, 2003) come entità che appartiene al mondo sensibile, ogni citazione anatomica (volti, mani, braccia, occhi) guida lo spettatore lungo un percorso di lettura sensoriale che sembra portarlo dentro un sogno vissuto ad occhi aperti. Le figure antropomorfe sono spesso collocate nello spazio antropologico del paesaggio, esso non va inteso nelle sue valenze naturalistiche ma concepito come dilatazione di colori e di materie dislocate nell’atmosfera rarefatta e impalpabile che tramuta il peso terrestre in energia cosmica. Non è dunque una latitudine mimetica quella che l’artista frequenta nelle sue scelte cosiddette figurali, si tratta piuttosto di una sfera iconografica sospesa tra il movente rappresentativo e la sua trasfigurazione concettuale. Questo spirito visivo si avverte per esempio nella testa capovolta presente in un dipinto del 2001 intitolato “visita”, una maschera spettrale che sfiora il margine inferiore della tela quasi staccandosi dall’ingombro del corpo, visione di sofferenza dove il ricordo paterno assurge ad emblema universale. Ciò che conta per M.P.C. è superare i confini segnati dalle forme, trasformare gli aspetti dolorosi dell’esistenza in occasioni di meditazione sull’epifania dell’inesprimibile, dialogando con la totalità del visibile. La memoria rappresa nelle icone del passato si manifesta nella materia inconfondibile della pittura, essa gioca simultaneamente sulle radici di immagini lontane e sui codici della contemporaneità, in una oscillazione continua tra analogie formali legate alla tradizione (Medea, 2007) e al contemporaneo (Ingrid Betancourt, 2008). Questa relazione complessa avviene in vari modi, è ravvisabile in differenti scelte espressive, sia quando l’artista utilizza le strutture simmetriche degli stemmi araldici come tramiti per sintetizzare le visioni del presente, sia quando si affida ai segni elementari che evocano le decorazioni antiche. Allo stesso modo gli ovali bianchi e le bianche sculture (Cenere ardente, 2009-2010) attingono al ricordo indelebile dei gessi di Pompei, così come il dettaglio dell’occhio rimanda alla condizione primaria in cui lo sguardo si affaccia sul mondo, come per la prima volta. In effetti, la pupilla dilatata contiene le trasparenze mutevoli del colore, è un occhio che non guarda ma è guardato, che sospende il senso della vista e lo rivolge all’interno di sé. Per queste ragioni le materie e i segni ai quali M.P.C. rivolge il suo pensiero mantengono sempre un alone di mistero, talvolta sembrano avvolte da impulsi irrazionali, in altri casi danno l’impressione di sconvolgere l’assetto provvisorio che emerge nel processo immaginativo. Misteriose sono le “mappe” (2009) segnate dallo stratificarsi di pigmenti anneriti dal tempo, oscurati dalle ombre dei ricordi, connessi con le zone più insondabili dell’animo umano, là dove ogni immagine perde identità fino al punto di smarrirsi in un territorio senza riferimenti. Tuttavia, la condizione di oscurità rafforza l’immaginazione, spinge a guardare dentro il proprio sentire, a riattivare quelle energie che la realtà delle attuali esperienze del “virtuale” identifica nello spazio dell’etere. M.P.C. crede fortemente alla vibrazione emotiva del colore, al trauma dell’origine come esperienza inesauribile che permette di ritrovare la sapienza del corpo, la dimensione sinestetica che trasforma la materia in un continuo stato di genesi. In un’opera su carta (1992) ci sono alcuni segni in avvitamento tracciati con fare impulsivo, sopra questi linee di inchiostro si inserisce un triangolo informe di ceralacca ad indicare quale deve essere la direzione da prendere, un invito a sprofondare nel vortice del corpo e della mente, fin quasi a perdere i sensi. Questo progetto spaziale ha il sapore di un’antica utopia romantica, forse indica il desiderio di un infinito perdersi nella vastità dello spazio imponderabile, quasi per ritrovare il fondo di un precipizio che porta altrove. Nell’immagine simbolica di questi segni spiraliformi si coglie la presenza dell’ignoto, la prefigurazione di uno spazio fluttuante dove i movimenti turbolenti incrinano ogni equilibrio. In un’altra opera, un’istallazione (2007) con pittura su iuta e grandi chiodi, si vede una macchia rossa (un cuore) al centro di un tappeto che demarca un rituale che allude alla condizione di sofferenza dell’uomo, ma anche alla speranza di poter dare un altro senso ai respiri drammatici dell’esistenza. In altri casi, rossi sono i bagliori geometrici che galleggiano nel vuoto dei “12 pozzi” (2010) sottraendosi al vincolo gravitazionale come se si trattasse di una danza visionaria incontrollabile nei suoi magnetismi. Il rosso è un colore ricorrente nelle ricerche di M.P.C., può significare passione, sangue, flusso vitale o anche semplicemente un’accensione di energia luminosa che invade lo spazio circostante e lo fa vibrare. La sua immagine ardente compare ancora nelle campiture verdi delle “stanze strette” (2008) coprendo il profilo di piccoli pugni che stanno ai margini dell’inquadratura, simboli di violenza portata o ricevuta, zone smaglianti che si impongono con fermezza nel campo della visione. Rosso è anche il colore usato nell’ellissi geometrica che campeggia sul fondo nero di una “camera” (2009), appartenente ad un ciclo di opere giocato sulle variazioni cromatiche della stessa forma all’interno di una rigorosa sequenza spaziale. Analogo è il procedere ritmico dei dipinti su iuta e ferro intitolati “misteri” (2010), ma si potrebbe parlare anche di enigmi di geometria modulare che ripete all’infinito un percorso costruttivo elementare, ritmo di base per ogni avventura nel regno delle forme universali. Se in questi casi il rosso è dotato di una staticità quasi metafisica e di un perfetto rigore aniconico, dinamico e impetuoso è invece il rosso lavico (2009-2010) di una recente serie di forme rotonde dipinte con pennellate rapide e accerchianti, mobilissime e fluenti in ogni minimo spostamento. Il carattere espressionista di queste icone porta a leggere il loro mutevole deformarsi come se fosse sempre sul punto di essere inghiottito dall’abisso fagocitante del nero, con una accelerazione spaziale che spinge lo sguardo ad affondare e risalire, seguendo opposti stati di tensione. Quest’atteggiamento comunica perfettamente il senso vitalistico che Maria Pia Campagna ha sostenuto nel suo percorso fatto di esperimenti spesso così diversi tra di loro da sfiorare l’eclettismo. Ma di questo evidentemente non si tratta perché le tensioni contrapposte sono una scelta radicale che coinvolge l’artista in modo viscerale, in tutto il suo ancestrale guardarsi dentro, a capofitto. E’ la scelta di seguire se stessa senza mai voltarsi indietro, è la volontà di rimettersi ogni volta in gioco, con una determinazione che la porta ad esaltare senza enfasi una condizione di ricerca che può essere emblematicamente racchiusa in una recente e illuminante affermazione: “parto sempre da zero ogni volta che lavoro”. Claudio Cerritelli Milano, luglio 2010 (Riflessioni dopo una conferenza tenuta al Museo degli Sguardi di Rimini sull’opera di Maria Pia Campagna, 25 giugno 2010) "Maria Pia Campagna è artista complessa, che ha saputo creare, negli anni, un sistema fluido di connessioni puntualmente divise tra astrazione e figura, introspezione e realtà esteriore, passato e contemporaneità. Questa sua fluidità le consente di rapportare e intersecare con esiti del tutto nuovi, opere e testi della sua passata esperienza artistica, maturata in un clima fortemente influenzato dall'arte concettuale e post-concettuale, con opere e testi inediti, odierni. La tensione dialogante che scaturisce da queste combinazioni aveva avuto inizio con la sua ripresa espositiva, già a partire dagli anni '90, espressa nelle sue mostre monografiche Batticuore (S.Marino, 1998) e Es (Rimini, 2003) e la più recente Punch (Milano, 2006), collocabili al punto di partenza di una nuova riflessione artistica. Che culmina, oggi, con Adfinitas, e ne perfeziona il processo d'indagine. Le opere della Campagna si sviluppano in continuità, senza l'urto di frazionamenti cronologici o di interpretazioni filologiche obbligate, tutte partecipi dello stesso grado di necessità, come componenti di una stessa identità poetica. Lo dimostra l'utilizzo, o forse meglio, il riuso, di elementi documentari-fotografici, testimonianza delle ricerche svolte da Maria Pia Campagna negli anni '70 in direzione concettuale-ambientale, accostati ora a una nuova materia pittorica. Brani di vita artistica, esperienze di land art, l'interrogarsi sul ruolo dell'artista svolto in anni di profondi cambiamenti e sperimentazioni nell'ambito delle arti, riemergono con tratti nuovi, sostenuti dall'idea di un costante mutamento che anima le nostre azioni e le cose dell'arte. Nuove pitture che si aprono come sipari sullo spettacolo del proprio passato (artistico), stringendo un dialogo segreto. Non è un caso che la Campagna abbia congiunto con esiti inaspettati una riflessione che prende le mosse proprio dai suoi anni d'esordio - da quella diramata area di ricerche che sono gli anni '70 - e che con libertà di prelievo o di citazione diretta, abbia traslato in una soluzione più libera, in termini di accostamento, fotografia e pittura, affidando alla superficie bidimensionale una nuova tensione dialogante, creando nuove relazioni di senso. Una messa a punto che nella serie Punch (2006) coniuga l'immagine fotografica permeata di una grande forza psichica e l'elemento pittorico, quest'ultimo sorta di feedback che mette in contatto l'interiorità dell'artista e l'immagine in bianco e nero. Che è poi frammento documentale di una sua articolata azione di land art, fotografata da Massimo Dolcini, negli anni di comune permanenza ad Urbino, densi di incontri proficui e di ricerche. Le affinità evocate dal titolo che la Campagna ha voluto attribuire a questa sua ultima esperienza espositiva sono molteplici e profonde. L'artista considera le affinità legami di sangue, insistendo sul significato originario latino. Così definisce i suoi rapporti con le sue opere, poiché sa leggere e vedere il processo della loro genesi, perché esse si rapportano in un continuum vitale. Sono le stesse affinità che si stringono tra coloro che guardano un'opera e ne captano il senso; tra la sperimentazione dell'arte e la sua traslazione, tra lo scambio delle conoscenze e l'arricchimento che ne deriva; è affinità partecipare all'opera. Maria Pia Campagna non si nega certo nomadismo nella propria autocitazione, lo fa con fierezza e motivazioni che trae dalla sua personale traccia biografica. Dipana la sua memoria che è imbevuta di cultura dell'arte e su essa modula un fare pittorico denso di allusioni, ma allo stesso tempo analitico. E consegna alla energia teatralmente viva del colore certa sua esuberanza astratta e la sua emancipazione pittorica. Dalle eleganti e potenti costruzioni di colore dei dipinti legati alla serie Es sui grandi teleri di lino, alle figurazioni recenti dove il colore si fa meno compatto e i temi sottendono un senso di caducità esistenziale (Mors), Maria Pia Campagna traccia un percorso sempre in movimento. Anche Indelébilé, grande opera modulare che si avvale di materiali e pigmenti diversi (acrilici e bitume) è strettamente connessa a questo processo di indagine, anzi è il punto d'arrivo di una investigazione che prende le mosse ancora una volta da quel serbatoio di esperienze e curiosità maturate negli anni '70. Contenuti più sottilmente esistenziali, come la dissolvenza e la morte, come lo spegnimento e l'accensione della vita o del pensiero, si insinuano; non è un caso che la sua azione denominata Neon Murato (1971) sia qui direttamente citata attraverso frammenti fotografici posizionati tra le pitture di oggi, emblematica sintesi di queste riflessioni." Annamaria Bernucci — A occhi chiusi, Urbino, Novembre 2018 Gli anni Settanta, quelli più importanti per le scelte artistiche di Maria Pia Campagna, sono il decennio degli “anni di piombo”: si susseguono le stragi da Brescia alle Olimpiadi di Monaco, al treno Italicus e alla morte di Aldo Moro; si chiude la dittatura del Portogallo della Grecia e della Spagna; dall’Inghilterra si diffondono la moda e la musica punk, si afferma l’arte concettuale di derivazione duchampiana. Gli anni Settanta per Maria Pia sono anche quelli della frequentazione dell’Accademia di Belle Arti di Urbino. Di lei ricordo un semplice cerchio di fil di ferro appeso per lungo tempo sulle pareti del corridoio d’ingresso dell’Accademia nell’ex convento degli Scalzi. Alberto Boatto, allora insegnante di Storia dell’Arte, apprezzava la semplicità dell’opera così ricca di valori simbolici, che andavano dall’idea della circolarità del tempo all’eternità. La mostra, presentata a Urbino per l’associazione Fedora nei locali di mjras, prende le mosse da due tracce narrative, la prima nasce dall’esperienza che l’artista ha compiuto sui resti antichissimi di un bacino di donna: dall’incontro dei due femori si è sviluppata l’immagine della coppia che si materializza in una grande varietà di forme realizzate a matita a occhi chiusi; la cecità temporanea consente alla mano di racchiudere i doni di memorie antiche, ancestrali, fino a restituire l’archetipo delle forme. Dal foglio di carta l’immagine, sempre leggibile in coppia, si compone a colori su un supporto di alluminio, memore non solo dell’archetipo femminile, ma anche dei meccanismi che dal codice sull’architettura di Francesco di Giorgio sono divenuti formelle a bassorilievo, motivo ornamentale del dossale del sedile che correva sulla facciata ad ali del palazzo ducale di Urbino. Così, nelle figure che hanno le proporzioni esatte del corpo dell’artista, si coniugano le forme di un passato lontanissimo legato alla natura e l’inizio della valorizzazione di quei meccanismi che in Leonardo troveranno la loro applicazione nella macchina del volo. Per segnare il tempo che intercorre fra l’anatomia e la meccanica, Maria Pia ha inserito nel percorso della mostra due sculture orologi, ispirate alla dendrocronologia, per aggiungere il senso di una vita lenta, apparentemente ferma, come quella degli alberi, ma tenace: una vita che affonda le radici nelle oscure profondità della terra e lancia la chioma nel cielo. Silvia Cuppini |